È il 1928 quando Umberto Bellotto, l’artista di genio capace di fare il ferro leggero come vetro, viene chiamato dal ministro dei Lavori pubblici Giovanni Giuriati – veneziano come lui – a progettare e supervisionare le decorazioni degli edifici pubblici della capitale.

Da artista fortemente radicato nella materialità – e perciò particolarmente attento alle tecniche di lavorazione e alla composizione dei materiali – Bellotto si circonda fin da subito dei migliori collaboratori: tra questi, la concittadina Rubelli, con cui collabora già da qualche anno e i cui tessuti andranno ad arredare numerose stanze del Ministero della Marina.

Sbirciando in archivio, la prima menzione di questo rinnovato sodalizio è una nota del 10 agosto 1928, dove Bellotto figura in un elenco di commesse appena acquisite, mentre un’altra nota di tre giorni più tarda cita i 12 metri di «velluto operato» subito ordinati dall’artista. Sono le prime tracce di un rapporto che in quest’ultimo scorcio del 1928 si fa molto assiduo e come spesso succede tra menti creative soggetto a scontri e umori: genio vulcanico, Bellotto va infatti talvolta sopra le righe, altalenando – come leggiamo dai documenti – brusche sfuriate durante le quali «non si sa come fare ad avvicinarlo» a momenti di «ritirata strategica» capaci persino di condurre a un «perfetto idillio». Un idillio precario al cui raggiungimento contribuiscono senz’altro la serietà e la puntualità con cui Rubelli mette in campo tutte le proprie risorse, coinvolgendo – sono ancora le carte a dircelo – alcuni dei suoi migliori collaboratori, come le tessiture Fumagalli e Pizzi.

Nei primi tre mesi di lavoro al Ministero, Bellotto realizza la decorazione di circa settanta stanze di purtroppo – come accaduto a tante sue opere nelle case veneziane – la guerra e le vicissitudini del tempo non hanno permesso di conservare traccia. Ci restano per fortuna un campione di lavorazione e numerose messe in carta, che dalla polvere degli archivi ci offrono una testimonianza della bellezza pensata e creata per quelle stanze.

È il peso e il merito della memoria: che qualcuno la viva, che qualcuno la tramandi.

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